Introduzione
Propongo in questo articolo una visione transpersonale della psichiatria, che si affianca a quella transpersonale della psicologia, avviata con la nuova ondata di evoluzione della coscienza collettiva che abbiamo visto e sentito arrivare e crescere sulla fine del secolo scorso, in tutti i campi e quindi anche in psicologia.
Mi riferisco in Europa, ad autori come Freud, Jung e Assagioli, in America, a pionieri come Maslow, Grof, Wilber, nella psicologia prima umanistica e poi transpersonale; rinviamo agli articoli in questo blog sulla storia della psichiatria per questi nuovi sviluppi, che parlano di Psichiatria e Psicologia Transpersonale o PTP.
In questa sede diamo una lettura generale del campo.
La follia può esser definita come la condizione in cui ci si trova in uno stato alterato di coscienza, (SAC), o meglio ancora uno Stato Non Ordinario di Coscienza, (SNOC), tale da modificare il nostro rapporto col mondo e con noi stessi; per questa ragione spesso ci si è posti il problema collettivo di come gestire queste situazioni, e da qui è nata alla fine anche la psichiatria.
1. Elogio della follia:
Platone diceva che la mania avvicina alla divinità.
Erasmo da Rotterdam tesse un elogio della pazzia parlandoci come ad una amica, una ricchezza.
Kerouac, nel suo libro On the road, scrive:
“Ecco chi sono i matti: i disadattati, i ribelli, quelli che piantano casini, i cunei rotondi da mettere in un buco quadrato, gli unici che vedono le cose in modo differente. Essi non hanno regole, essi non rispettano lo status quo. Tu puoi citarli, essere in disaccordo con loro, puoi non condividerli, puoi glorificarli, o svilirli, ma l’unica cosa che non puoi fare è ignorarli… Perché loro cambiano le cose, essi inventano, essi ispirano, immaginano, guariscono, creano, essi spingono avanti la razza dell’uomo. Può darsi che debbano essere matti, perché gli unici che sono matti abbastanza da pensare di potere cambiare le cose del mondo, sono quelli che lo fanno”.
Un proverbio dice: Solo i matti possono conoscere la verità.
I sopravvissuti alla crisi dicono a volte: questa crisi mi ha cambiato in meglio e così profondamente che non tornerei indietro.
I matti sembrano avere una marcia in piu’.
2. Disastro della malattia mentale
Altre volte sembra proprio che invece i matti abbiano una marcia in meno:
“….Per chi beve di notte / E di notte muore e di notte legge / E cade sul suo ultimo metro
// Per gli amici che vanno e ritornano indietro /E hanno perduto l’anima e le ali. //
…Per chi vive all’incrocio dei venti / Ed è bruciato vivo,…
…Per la nostra corona di stelle e di spine…
De Gregori, Santa Lucia
Il matto spesso ha perso tutto, il mondo e sé stesso. In questo senso è liberato, ma è anche passato per la morte.
Impazzire non è una passeggiata: sarebbe meglio avere una malattia fisica grave, dicono spesso i pazienti, che questa croce …. non lo auguro al peggior nemico!
Un detto attribuito a Platone dice che :
Al mondo ci sono tre tipi di uomini: i vivi, i morti, e quelli che vanno per mare.
I matti che conosciamo noi sono parte di tutte e tre le categorie.
3. Brevissima storia della psichiatria
La società cosiddetta civile ha sempre avuto difficoltà con le condizioni mentali diverse dal normale, con gli stati alterati di coscienza.
Il portatore di questa condizione era definito, stigmatizzato come folle, matto, alienato mentale: la condizione era ritenuta irreversibile, peggiorativa, tale da portare la persona alla alienazione da se stessa e dal corpo sociale, ed è stata nel corso del tempo interpretata e gestita in molteplici maniere.
I matti sono passati dall’essere esclusi dal mondo civile, espulsi fuori dalle città, nei boschi, o su imbarcazioni mandate ad altri porti o alla deriva. In seguito la sorte dei diversi fu quella di essere reclusi in condizioni più o meno disumane, ghettizzati, imprigionati o segregati, in quanto portatori di male, di maledizione divina, in tempi più oscuri, o di alterazioni fisiche cerebrali, in tempi più moderni.
Il matto è stato sempre escluso e temuto, poiché traspariva sempre in questa diversità anche una scintilla di qualcosa di più, di una condizione di libertà da condizionamenti e dal livello di coscienza ordinario che non poteva essere accolto dal consenso sociale condiviso.
Lo stato attuale delle cose, dopo la scoperta degli psicofarmaci, delle camicie di forza chimiche, e delle tecniche psicoterapiche più diverse, ha consentito dove più e dove meno di liberarci del contenimento fisico di queste persone, ed ha permesso un controllo dei sintomi ed una gestione più sottile degli stati alterati di coscienza, ma non ancora una loro vera comprensione ed integrazione nella società.
Nel mondo moderno prevale ancora, per molti, il paradigma medico, ossia il modo di pensare, il metodo e le procedure della medicina applicate al campo della psiche, dell’anima e della coscienza.
Come sappiamo si tratta di una ottica materialistica, basata sul metodo scientifico delle prove ed errori, che ha un approccio oggettivante del disagio soggettivo e sociale di queste condizioni, che cerca di definirle dai segni e sintomi, e li cataloga minuziosamente, fino all’estremo ed adotta un procedimento di cura farmacologico e sintomatico.
In questa ottica medica, c’è un organo malato che deve essere restituito allo stato precedente; così anche il disagio mentale, le malattie mentali sono considerate come qualcosa di patologico che deve essere trattato in maniera da tornare come prima.
Tuttavia invece nella psichiatria non abbiamo a tutt’oggi una vera comprensione dei disturbi mentali.
Cosa succede a queste persone? Per capirlo dovremmo averne esperienza noi stessi…
Un paziente mi fa :
-”Dottò, a lei gli si è mai rotto il cervello?”
-”Beh, proprio rotto, no…. “
-”E allora, vede, cosa vuole capirci lei di me?”
Non è stata trovata prova convincente di un organo malato, né a livello macroscopico ne a livello biochimico. Gli studi che dimostrano alterazioni biochimiche nel cervello, dei ratti ad esempio, non sono a ben guardare la prova che tali alterazioni siano da interpretare in quel senso, o persino che siano una causa di quel disturbo, anziché condizioni concomitanti o conseguenza di quelle alterazioni mentali.
Inoltre, non possiamo in psichiatria pensare che dobbiamo giungere ad una restitutio ad integrum, allo status quo ante, un ritorno allo stato precedente, ma semmai aiutare ad entrare nello stato seguente.
L’intervento che utilizziamo in psichiatria è farmacologico e sintomatico; e sappiamo però che una cura sintomatica è ammissibile, e solo temporaneamente, solo quando non si conosce la causa del disturbo.
La psichiatria ufficiale ed accademica ha sviluppato in tempi recenti sempre di più questa ottica organicista medica, negando gradualmente sempre di più i contributi e gli apporti delle teorie e delle terapie psicologiche, per orientarsi verso una venerazione ed impiego sempre maggiore della tecnica.
Per fare alcuni esempi, essa propone l’impiego nei colloqui coi pazienti dell’ intelligenza artificiale nel gestire i colloqui di screening, si avvale di softwares per il riconoscimento di emozioni, per la somministrazione di tests diagnostici e prognostici in clinica; il neuro imaging, lo studio e la manipolazione genetica, lo sviluppo di psicofarmaci più sensibili ad esempio contenenti sensori, sensori sugli abiti e nell’ambiente di vita del paziente, che permetterebbero sempre di più il riconoscimento precoce, loro dicono preventivo, ed il conseguente controllo del comportamento e della mente dei pazienti.
Tutto questo dubitiamo ci possa avvicinare alla comprensione della coscienza e delle sue evoluzioni, all’anima ed alla cura, allo specifico dell’essere umano, e sembra invece prospettare un futuro allineato con una disumanizzazione della società nel suo insieme, alienazione che traspare sempre più chiaramente nel campo economico e politico, scientifico, educativo, alimentare etc.
4. Altri sviluppi in psichiatria
Così si è sviluppata in età post moderna una serie di altri approcci, che non amiamo definire anti psichiatrici, o di psichiatria alternativa, poiché così facendo già valideremmo come corretta e principale la tendenza mainstream, ossia più comunemente sostenuta dal potere che guida la nostra società sempre di più, quello dell’interesse al controllo ed alla parcellizzazione degli uomini tra loro e dentro di loro.
In particolare, vogliamo qui trattare di una visione secondo cui le crisi psichiche e psichiatriche sono da considerare un potenziale evolutivo nella coscienza dell’uomo, che spesso si complica e generalmente non è indolore proprio per le condizioni in cui si svolge, una coscienza impreparata alla trasformazione.
Le crisi sono inoltre al contempo anche espressione e stimolo per un un cambiamento sociale, collettivo, necessario ad affrontare la vita nel terzo millennio.
Sebbene ancora in fase di evoluzione, la nuova psicologia e psichiatria vedono alcune se non tutte le alterazioni psichiche, che alcuni chiamano Stati Alterati di Coscienza, o Asc, come stati olotropici della mente, (ossia tendenti all’Uno), come fasi evolutive verso una coscienza più unitaria, non duale, più evoluta, come condizioni volte alla nascita di un nuovo stato di coscienza, di un nuovo essere.
Nella nostra cultura religiosa cristiana questa condizione di nascita di un nuovo stato dell’essere è stato chiamato resurrezione.
Se riusciamo per un attimo a vedere la religione, non solo la nostra ma tutte le religioni, come il racconto condiviso in quella cultura sulla nascita del mondo, ossia di come la mente creatrice dell’uomo crea dal nulla ogni cosa ogni mattina al risveglio, possiamo vedere che il racconto sacro descrive il processo che ciascuno di noi può fare in vita se gli accade di morire da vivo, mentre il corpo è ancora caldo.
Nella Divina Commedia la coscienza individuale è descritta come il mezzo in cui scorre la vita, nostra vita precisamente, che nel corpo individuale egli chiama la sua vita.
Si tratta quindi di questo “mi ritrovai”, concomitante alla condizione di morte – rinascita che l’uomo in cammino verso il risveglio della coscienza attraversa; si tratta della morte della identificazione con il corpo e la mente, con la persona, con il mezzo direbbe Dante nell’avvio della Commedia.
Infatti, Virgilio rimarca spesso come Dante sia in prima vita, non abbia visto l’ultima sera.
L’aldilà religioso quindi va inteso in questa ottica come al di la dello stato di coscienza ordinario, come morte – rinascita psicologica, non al di la della morte fisica.
5. Un parto psichico, la nascita di un nuovo essere
Tale processo di cambiamento è stato paragonato al parto[1] in quanto si tratta della nascita di un nuovo essere, di una nuova coscienza di èe, un rinascere da se stessi, un “mi ritrovai”.
Nel parto si possono distinguere infatti diverse fasi successive:
- inizialmente accade la rottura delle acque, ed il distacco dalla condizione cui eravamo fusi e confusi sino ad allora, una identità primaria. Il feto si stacca dalla sua dimora originaria, iniziando un percorso di separazione e individuazione;
- segue poi questa fase delle periodiche contrazioni, che corrispondono all’attivazione energetica necessaria per aprir la strada, e spingere avanti il processo;
- in questa fase si incontrano in misura maggiore o minore delle reazioni di resistenza e quindi dolore nei tessuti che si devono adattare a questo passaggio e cambiamento;
- infine ci sarà una quiete dopo la tempesta, ma il risultato è radicalmente diverso da ciò che c’era prima.
La nuova coscienza nata, il rinascere da se stessi, fa vedere le cose da un punto di vista completamente diverso, da uno stato di coscienza mutato.
In questo parto psichico possiamo rivedere analogicamente le fasi di sviluppo della nuova coscienza.
E come per il parto comprendiamo che non si tratti di una passeggiata, di come sia un processo misterioso, miracoloso, molto intenso, potenzialmente mortale, e quindi comprendiamo come non sia agevole accettare questa nascita, che corrisponde peraltro anche ad uno scomparire della condizione precedente.
Così può accadere di spaventarsi se siamo molto identificati, potrà accadere di provare paura e terrore del vuoto, della non identità.
Si possono sviluppare condizioni psichiatriche anche serie, si diventa pazienti, vaso di questo processo che ci lacera e trasforma, e che lo fa con un tono drammatico a volte estremo, in base a numerosi fattori tra i quali principale è la la condizione di preparazione del terreno in cui il processo avviene.
6. Psicodinamica delle crisi e del loro decorso
Ciò che caratterizza queste trasformazioni della coscienza, vissute come crisi, (l’evoluzione avviene per crisi), sono una serie di sintomi di cui ora parleremo più dettagliatamente.
Categorizzeremo per semplificare i sintomi che caratterizzano la crisi e la sua evoluzione in tre grandi gruppi:
A. Crisi di identità
Un primo ordine di disturbi riguarda il processo fondamentale, lo spostamento della coscienza dal me al Sé, che si manifesta come una crisi dell’identità precedente, di come ci si è rappresentati sino a quel momento. La crisi di identità porta con sé specifici sintomi, quali la depersonalizzazione, la derealizzazione, la demotivazione, il disorientamento, il senso di vuoto, di essersi persi, non ritrovarsi più come identità…. etc.
La scomparsa del mondo conosciuto, delle certezze sul mondo e su di sé , il “casca il mondo, casca la terra”, caratterizza questa fase.
La condizione di crisi di cui stiamo parlando corrisponde al crollo delle nostre certezze, dei significati, della nostra forza motrice; ci lascia senza direzione e senza forze, come se fosse crollato il mondo addosso, come non vi fosse più senso, motivazione, meta, connessione.
Non c’è più nulla, si vive la perdita di sé come era conosciuto prima; è un vissuto di deprivazione, di crollo, di catastrofe e post catastrofe, di deserto.
Tale stato permane solitamente anche dopo che la fase energetica più acuta, e le reazioni alla crisi, di cui tra breve diremo, si sono esaurite o sono sullo sfondo di uno stato residuo, cronicizzato, come una notte oscura dell’anima.
Sono solitamente presenti quindi demoralizzazione, disperazione, ritiro sociale, anedonia, anaffettività, uno stato larvale, in psichiatria detto residuale, spesso osservabili in clinica psichiatrica soprattutto nei casi cronicizzati.
Un detto in psichiatria recita:
una volta psicotico, sempre psicotico
Ci si riferisce alla irreversibilità del processo, che può solo evolvere in seguito se va bene in una riabilitazione dell’esistente e nello sviluppo di una realtà completamente nuova ed altra, spesso incomprensibile a chi non la ha mai attraversata.
Questo crollo della vecchia identità è necessario al sorgere di un nuovo stato di coscienza; nelle fasi iniziali tuttavia tali sono lo sconcerto personale e le manifestazioni acute energetiche che si presentano che solitamente si da molto piu peso a quello che si sta perdendo che a quello che si sta presentando, sebbene siano un processo unico ed articolato ed intelligente.
Il deserto
Passata la fase più acuta, ciò che rimane, rassegnati all’ ineluttabilità ed irreversibilità del processo il più delle volte incomprensibile al paziente e spesso anche a chi assiste il paziente stesso, è uno stato di vuoto, fuori e dentro, spesso descritto come un deserto.
In questo deserto è la vera prova, è proprio questa aridità che deve precedere la possibile successiva fioritura del deserto, che rende questa fase così feconda nel penetrare in profondità nella coscienza in trasformazione.
Credo sia questo il motivo per cui molti moduli narrativi prendono come scenario il deserto, dalle tentazioni di Cristo, alla piaggia deserta di Dante, al deserto di Bip bip e Willy coyote.
In questa fase non c’è più orientamento, è come si fosse senza guida, ciechi.
Ed è proprio in questa fase che si inizia a vedere con altri occhi, da dentro. Proprio perché l’essenziale non è visibile agli occhi si deve attraversare questa fase di cecità, questa terra di nessuno.
Solo in assenza di tutto infatti si potrà forse riscoprire ciò che era sempre stato presente, la più importante condizione del reale e di noi come persone, la consapevolezza che fa da sfondo alla vita, e ritrovare che questa consapevolezza è ciò che davvero siamo, condizione e base di ogni esperienza, stato originale dell’essere. Con la perdita di percezione di qualsiasi genere, diciamo, in assenza anche di noi , che siamo svaniti, persi, ecco che l’attenzione spontanea è molto più prossima a ritornare sull’osservatore originario, sul Sé.
Questo è ciò a cui ci si riferisce quando si parla di risveglio, del “mi ritrovai” della Divina Commedia della vita.
In psichiatria questo primo tipo di alterazione si manifesta in ogni disturbo di coscienza, è “il” fattore di disturbo della quiete precedente”. Questo è la base del disturbo degli equilibri costituiti, dello sviluppo personale di cui in generale si occupa la psicologia non transpersonale.
In realtà non guardando solo alla perdita di equilibrio ma come potenziale contenuto nella crisi, potremmo vedervi invece crisi esistenziali, fasi di ristrutturazione e cambiamento, potremmo vedere questa fase come emergenza spirituale, ossia come l’emergere di una coscienza più evoluta, risvegliata di quella precedente.
B. Movimenti energetici
Contemporaneamente o poco dopo si manifestano quasi sempre un secondo ordine di sintomi, sintomi più connessi ad un cambiamento energetico nel sistema, un risveglio di una energia spesso molto intensa e trasformante, purificatrice, in oriente chiamata Kundalini.
Molto in breve, l’energia cosmica responsabile della creazione intelligente e progressiva del corpo del feto, esaurita la sua funzione rimane come potenziale residuo di mantenimento delle funzioni vitali, diverse e numerose, al centro del nostro essere psico corporeo; esso simbolicamente viene rappresentato col simbolo della madre, della vita sacra, che mantiene in vita il corpo (vedi simbolismo della dea in tutte le culture).
Un altro simbolo di questa forza attiva nel corpo è il serpente, che muta pelle e si trasforma ciclicamente, una colonna vertebrale esso stesso, arrotolato alla base della colonna vertebrale astrale dell’uomo (osso sacro appunto). Al momento dalla morte questa energia cosmica si libera dal corpo, ascende l lungo la colonna astrale (energetica) fuoriuscendo dalla sommità del capo (fontanella), ritornando a casa.
Così facendo attraversa dei plessi energetici lungo la colonna, detti chakra o ruote, che svolgono la funzione di tradurre e trasmettere l’energia vitale di base in modalità differenziate, centri che possono essere più o meno evoluti o resistenti a questo processo di liberazione dell’energia vitale.
L’ascesa del serpente, della forza Kundalini, la potenza evolutiva dell’uomo e dell’umanità, viene descritta come il risvegliarsi di un sacro fuoco interiore (simbolismo del drago, serpente che si eleva e che ha il fuoco dentro).[2]
Se tale morte accade in vita, come dicevamo a proposito dell’attivazione delle crisi psicologiche, del morire da vivi, la liberazione di questa energia porta ad una vita nuova, un nuovo stato di coscienza in vita.[3]
Il risveglio di questa forza latente nell’uomo, la sua attivazione ed infine ascesa diretta nel corpo si manifesta con segni e sintomi caratteristici da sempre descritti come associati al precedente accadimento di crisi, di opportunità e pericolo, attivati dall’ identità in corso di trasformazione, dal disinvestimento e reinvestimento energetico libidico concomitante tale crisi di identità.
Tale attivazione energetica può manifestarsi come disturbi rilevabili maggiormente sul piano psicofisiologico (vedi il libro di Sannella sulla fisio Kundalini), oppure più sul versante psichico – coscienziale.
La serie più psico fisiologica comprende sintomi di energia calore (caldo anche alternato a freddo) in tutto il corpo, quali dolori diffusi nel corpo (forse una delle componenti della nuova sindrome fibromialgica che rileva tuttavia anche di alterazioni fisiche), nella schiena, sotto forma di blocchi (colpi della strega) che spesso ma non sempre sono associati a reperti somatici ortopedici (ma che hanno una vita anche propria); o un senso di scorrimento, di caldo e freddo, di tremore interno, o ancora movimenti alterati nel corpo come tics o mudra o altro ancora.
I sintomi energetici a livello del corpo sottile, percepiti nel corpo fisico, possono spesso manifestarsi anche in regioni specifiche, solitamente associato alla sede dei chakra (soprattutto 4°, 5°, 6°, a volte anche 2° e 1°), e sono connessi all’ iperafflusso energetico in queste regioni del corpo sottile, nei chakra e nei canali che li collegano.
Ad esempio a livello
del 4 chakra, tachicardia;
del 5 chakra : senso di soffocamento;
del 6 chakra: offuscamento della vista, sbandamenti e capogiri, vertigini, acufeni scambiati per disturbi ORL, cefalee, etc.
La serie più psichica coscienziale comprende fenomeni di tipo emotivo, gioia o dolore intenso, paura intensa, o di tipo più mentale, quali confusione, fuga del pensiero, pensieri insoliti o dal contenuto abnorme, come i pensieri di morte che ci potrebbe raggiungere in molteplici modi, o ancora percettivi, quali luci e suoni o voci interiori, ipersensibilità percettiva etc.
Come per le contrazioni del parto questi sintomi sono caratterizzatati da fasi periodiche, (spesso connesse alle variazioni stagionali), di acuzie ed intensità soggettiva, da fasi energetiche di alta tensione o eccitamento alternate a fasi di minor apporto energetico.
Su questa base si possono leggere i disturbi bipolari come manifestazione di variazioni nel sistema energetico affettivo.
Anche gli attacchi di panico possono essere classificati come un inizio di apertura energetica del sistema, fenomeni spesso molto intensi e che molto spesso accadono in persone impreparate a comprenderli ed accoglierli. [4]
C. Reazioni egoiche residue
Un terzo ordine di sintomi riguardano le reazioni egoiche alle prime due serie di sintomi.
Se infatti il processo di trasformazione può essere descritto come un processo di morte rinascita, il suo sviluppo soffre di diversi ostacoli legati alla preparazione del mezzo in cui questo accade, diverso per ciascun individuo.
Il problema sta quindi qui nel “mezzo del cammin di nostra vita”, inteso come complesso corpo mente, dal livello evolutivo dell’ego e dalla purificazione di esso a tutti i livelli.
Così potremmo avere questo processo di risveglio in persone che già hanno un livello di coscienza evoluto, capace più o di meno di lasciare andare ed espandersi come coscienza individuale.
Di questo potrebbe essere opportuno parlare più a fondo tempo permettendo. [5]
E’ proprio questa terza serie di sintomi che solitamente spinge chi subisce queste crisi a consultare psicologi e psichiatri: il soffrire e il non volere soffrire. E’ l’ego che soffre, ed è anche ciò che fa soffrire.
Se la perdita di identità si svolge in maniera parziale, se rimane un po’ della vecchia identità nel corso del processo, e questa è quasi la regola, assisteremo all’organizzazione difensiva della parte residua di identità che protesta ed agisce contro il processo trasformativo.
7. Psichiatria
Qui vediamo bene che la sofferenza non deriva dal cambiamento, ma dalla resistenza al cambiamento.
Questo rende difficile spesso aiutare le persone sofferenti, poiché spesso vorrebbero più tornare ad essere come prima anziché cooperare a divenire come dopo: l’ego del paziente cerca collaborazione per resistere, anziché per cooperare ed agevolare il parto della nuova condizione.
La crisi di identità ed i movimenti energetici nel corpo sottile ad essa associati mettono in crisi il sistema egoico ed il suo controllo; così, nella fase di adattamento, appena dopo la prima crisi di apertura, che può essere anche prolungata, tale cambiamento può sollecitare da parte della residua identificazione con l’ego precedente numerose e diverse reazioni soggettive, volte a mantenere il vecchio equilibrio ed a contrastare tale processo di cambiamento.
Si tratta infatti della morte – rinascita, ma inizialmente più del vissuto di morte, del morire da vivi, della morte percepita (come astenia, depressione, paura di morire…) dell’ identità in crisi, del vecchio regime che protesta. E protesta raccontando storie paranoidi, pur di non levarsi di mezzo, proiettando sulla vita, l’ambiente o specifiche persone o situazioni una intenzione aggressiva, negativa nei propri confronti, oppure che architetta strategie di fuga, come i tentativi di suicidio che in forma estrema sostengono la tesi egocentrica “piuttosto che morire mi ammazzo”, per controllare fino all’ultimo la posizione di rifiuto della trasformazione.
Le reazioni egoiche a tale processo sono principalmente controllo e fuga, e generalmente tendono a strutturarsi nel tempo, per giungere a cronicizzarsi ed a divenire quadri tipici riconoscibili.
Un quadro tipico del primo tipo di meccanismi è ad esempio il DOC, il disturbo ossessivo compulsivo, si presenta come una organizzazione stabile del blocco: si devono controllare con rituali mentali o comportamentali pensieri di morte, interpretazioni ad hoc egoiche paranoidi, ed il controllo su questi d’altronde porta ad un continuo contatto con essi per gestirli, così che la psiche e la vita si paralizzano in questi meccanismi di difesa che divengono esasperati ed inefficaci, lasciando il soggetto in preda al panico dal quale cercava di fuggire.
Essenzialmente come dicevamo si tratta di reazioni alla prima serie di sintomi, in cui si vanifica l’aderenza alla vecchia identità, e le reazioni qui saranno maggiormente rivolte al ristabilire una qualche sicurezza, identità anche temporanea o posticcia, temi di controllo quindi e di conferma.
Anche l’anoressia, alcuni disturbi di personalità borderline, paranoide, dipendente, come certe psicosi schizofreniche stabilizzate in cui si vede bene come l’io individuale si sia organizzato per controllare e gestire il rischio di perdere l’identità.
Le tossicodipendenze rilevano un meccanismo misto, con una componente di controllo ma anche una di fuga, e l’uso di sostanze rende manipolato, incontrollabile, paranoide la situazione di fondo in cui il soggetto vive sempre più in fuga da se stesso.
Una sindrome di evitamento cronico potrebbe essere il DAP, il disturbo da attacco di panico, la paura della paura.
Essenzialmente si tratta di reazioni alla seconda serie di sintomi, i movimenti energetici intensi e temuti. Diversamente dall’attacco di panico, fenomeno energetico più o meno intenso, si tratta qui del disturbo nella vita relazionale ed interiore dovuto alla tendenza a controllare con l’evitamento tali eventuali stati.
Così, il non prendere più aereo o ascensore non deriva dall’effettiva verifica che in tali condizioni si possa presentare effettivamente (per quanto improbabilmente) un attacco di panico, ma dallo sposare la pratica preventiva di controllo su tale possibilità.
8. Resistenze nei terapisti
Una modalità di porsi di fronte alla crisi è di cercare di razionalizzarla, proiettarla fuori, gestirla dall’esterno, in separata sede diciamo: gestire la crisi nel paziente, che lo farà per noi.
Ricordo una paziente che sognò che lo psichiatra, io nello specifico , faceva fare ai pazienti quello che lui stesso non aveva il coraggio fare, attraversare quell’inferno.
Si potrebbe insomma strutturare una forma di difesa dallo sparire prendendosi cura di coloro che vivono questi stati, una cura e controllo dei sintomi per interposta persona, una forma proiettiva di preoccupazione e supporto all’identità che passa per una professione di aiuto.
Si tratta a volte, e lo psichiatra dovrebbe potersene rendere conto soprattutto se svolge una adeguata analisi didattica, di forme per persistere rispetto alla morte, alla pazzia, più sofisticate, come indica un’altra barzelletta sugli psichiatri:
Uno psichiatra incontra un altro psichiatra e gli fa:
-“Ciao! Tu stai bene, io come sto?”
La buttiamo a ridere, ma dietro l’identità dello psichiatra come tutti sanno c’è la percezione di quella follia, che cerchiamo a volte, parlo anche per me, di curare negli altri.
9. Fattori favorenti
Soffermiamoci adesso un po’ sulle cause favorenti l’avvio del processo.
-Una prima condizione, forse la più frequente, è che questa crisi accade spontaneamente. Questa condizione non si sviluppa a seguito di situazioni causali o concausali identificabili, non ha vere motivazioni, è endogena come si dice in psichiatria, non esogena. Essa non ha cause scatenanti, non si rintracciano situazioni patogene nell’infanzia ed è incomprensibile. Forse ci sei nato, si ipotizza c’è una predisposizione genetica, ma dentro questo termine non si sa cosa si debba trovare. Sappiamo infatti che nel DNA è memorizzata non solo la costituzione fisica ma anche esperienze psichiche intrauterine, apprese, e forse di più quello che era stato appreso o impresso nel genoma da generazioni a monte…. forse incarnazioni precedenti, chissà.
Quindi molte crisi si attivano seguendo un orologio interiore, forse l’oroscopo della nascita matura a un certo momento del tempo, come fossimo maturi per questo cambiamento, come Dio vuole diciamo.
Altre volte tuttavia si possono individuare cause scatenanti o determinanti, o almeno delle concause:
- l’uso o l’abuso di sostanze psicoattive, soprattutto se impiegate regolarmente, come la cannabis, gli allucinogeni di sintesi come lsd, o la dmt, l’uso di funghi allucinogeni, Ayahuaska ed altro…
- un lutto psicologico, quale la morte della persona amata, di un genitore o di un figlio, un amico, l’incontro psicologico colla morte;
- avere attraversato specifici traumi (tra cui gli abusi sessuali, che attivano la kundalini in una età ancora acerba).;[6]
- altre volte è un incontro colla morte da vicino a livello fisico, quali un incidente stradale, con coma, la scoperta di un male incurabile o comunque potenzialmente mortale, una situazione in cui siamo andati vicino alla morte come un incidente subacqueo o aereo etc;
- crisi maturate lungo alcune pratiche di meditazione, più raramente se equilibrate, più spesso in quelle nelle quali si cerca di forzare il sistema energetico in maniera inappropriata;
- tuttavia, il fattore principale probabilmente rimane misterioso, e forse potremmo chiamarlo la Grazia.
In poche parole, tutte situazioni in cui si vede la morte in faccia, da vicino, morte fisica o psichica; ogni volta che la sicurezza effimera della nostra continuità, della nostra identità , quando il tappeto da sotto i piedi ci viene sfilato via, ogni volta che ci troviamo nel vuoto, c’è una crisi di identità, una morte psicologica.
Allora accade quello che accade quando chiudi gli occhi: non ci sei più.
10. Fattori prognostici
Tra i fattori che condizionano lo svolgimento ed il completamento del processo, ossia la prognosi, per prima cosa dobbiamo considerare la preparazione della coscienza al momento dell’avvio del processo.
Infatti, se è vero che alcune volte questi cambiamenti vengono ad un certo momento, quando siamo pronti, abbiamo fatto molta strada verso il cambiamento, come cammino psicologico, spirituale, o comunque di crescita, integrazione, maturità, è anche vero che l’attivazione del processo, e la crisi che ne consegue, accade spontaneamente o a seguito di altri fattori come abbiamo visto, senza alcuna preparazione, apparentemente, in persone lontanissime dall’aspettarsi, dal conoscere, dall’accompagnare questo processo interiore, che si svolgerà per proprio conto senza molta considerazione del nostro accettarlo o meno.
Un autore e clinico americano, Scion Blackwell, sostiene che la prognosi dipenda essenzialmente dal livello evolutivo raggiunto dal soggetto al momento della crisi.
In un suo articolo sull’evoluzione in senso progressivo, di sviluppo spirituale, o regressivo, in senso psichiatrico cronico, delle fasi di crisi e trasformazioni della coscienza di cui ci stiamo occupando, rifacendosi alla classificazione degli stati di coscienza proposti da K. Wilber, individua negli stati più evoluti la possibilità di comprendere e gestire la crisi in senso evolutivo, come un’emergenza spirituale, anziché come una regressione a livelli di funzionamento più arcaici e difensivi, ad interpretazioni paranoidi, a difese primarie autolesioniste.
Gli stadi che Wilber individua sono i seguenti: Arcaico, Magico, Mitico, Feudale, Razionale, Moderno, Post moderno, Integrale. [7]
11. Terapia
Prima di entrare nella seconda parte di questo lavoro nello specifico di come possa il terapista intervenire per aiutare l’evoluzione degli SAC, vediamo in generale i punti cardine per intervenire efficacemente ed in maniera integrata.
- Innanzitutto sarà opportuno individuare una risorsa di supporto, attivare un aiuto dedicato. Questa potrà essere ad esempio una psicoterapia in generale, almeno di sostegno, di grounding, o ancor meglio una psicoterapia di tipo evolutivo, che abbia una comprensione dei fondamenti delle crisi; questo potrà essere di grande importanza per aiutare il cambiamento necessario, per allinearsi al nuovo sviluppo. Ricordiamo sempre che “la terapia non cambia la gente, aiuta la gente a cambiare”.
Il processo che la psicoterapia vorrebbe favorire è questa espansione di coscienza nell’individuo, ossia un’integrazione di quel maggiore in questo minore, una crescita della coscienza.
- L’andamento del processo inoltre sarà fortemente condizionato dal tipo di supporto farmacologico. L’intensità dei fenomeni energetici ed il ricompattarsi di una nuova identità infatti spesso è favorita da un uso di farmaci che come dosi e come durata siano scelti comprendendo la natura del processo di coscienza in corso.
La psichiatria moderna, nella maggioranza dei casi, impiega i farmaci a dosi massicce, rivolte più ad abbattere che ad accompagnare la crisi, e come presidio principale se non unico, fondandosi sulla concezione materialistica biochimica della malattia mentale.
Diversamente, i farmaci potrebbero essere impiegati in maniera più discreta, addirittura quasi artistica, (c’è un arte infatti nel gestire questo piano della biochimica).
- Sembra poi molto importante il contesto in cui si svolge il processo. Nel passato, lo sviluppo di una crisi spirituale evolutiva era compreso, accolto ed accompagnato in ambiti specifici, quali tradizioni consolidate religiose, ambienti monastici o comunitari. Si pensi ad esempio in ambito buddista all’importanza del Sangha, ossia alla assemblea di coloro che fanno lo stesso cammino spirituale, la comunità spirituale diciamo … coloro che condividono la dottrina e del maestro nell’ accogliere, favorire, accompagnar e proteggere lo sviluppo di tale cambiamento di coscienza. Tutto questo è solitamente assente o almeno molto poco presente nel mondo moderno, dove il risveglio accade non solo in persone impreparate a comprenderlo e gestirlo, ma anche in contesti del tutto ignari della sua natura ed indisposti ad allinearsi ad esso, anzi spesso stigmatizzanti, segreganti ed opprimenti.
Così sarà opportuno organizzare un contenimento attorno alla persona in crisi, rivolto a misure base di sicurezza ambientale, come una stanza tranquilla, senza troppi problemi relativi agli oggetti contenuti che non debbano essere danneggiati, cibo e riscaldamento, etc. Presenza di due operatori, che a rotazione siano sempre presenti durante tutto il periodo della crisi o per il tempo necessario, operatori che potranno essere anche persone amiche del paziente, familiari, o operatori esterni,, e comunque adeguatamente preparati a questo scopo e sostenuto da figure professionali esperte.
12. In particolare: come si fa
A. Punti di vista
Due psichiatri, uno piuttosto giovane ed uno anziano, scendono dall’istituto in cui lavorano a sera, in ascensore.
Il giovane si lamenta:
“Che stanchezza! Tutto il giorno che ascolto pazienti, non ne posso più! Mi hanno succhiato tutte le energie! Ma io non capisco, come fai tu, che lo fai da una vita, ad ascoltare tutti questi pazienti durante la giornata e ad essere la sera ancora così fresco e riposato e tranquillo?”
E quello anziano, , dopo un attimo di sospensione, risponde: “E… chi ascolta?”.
La barzelletta sembra a prima vista indicare come con la pratica di questo mestiere si possa sviluppare col tempo un disinteresse, un distacco un po’ superficiale, un certo cinismo, anche, rispetto all’impegno partecipe che si può provare all’inizio della professione.
Tuttavia, ascoltando meglio il dialogo, l’anziano sta suggerendo al giovane il segreto per non essere stanchi: chiedersi chi è che sta ascoltando.
E’ forse la persona, l’identità dello psichiatra, che il giovane ha bisogno di sostenere, di colui che aiuta con sforzo, impegno, cercando di comprendere ed aiutare? Ed allora questo è faticoso, porta ad esaurimento, a essere stanchi “da morire”.
Oppure è una coscienza libera da questa identificazione, uno spazio vasto su cui prende appoggio il mondo, senza sforzo auto – sostenuto da questa neutralità amorevole, che con un sorriso accoglie quello che accade, senza attaccamento al risultato, senza difese personali, senza un ruolo da sostenere?
Ed allora questo è leggero, è l’insostenibile leggerezza dell’essere.
L’anziano quindi sta dando una risposta doppiamente saggia.
Da una parte perché offre un consiglio che risponde davvero alla domanda del giovane, il quale forse nemmeno si era reso conto di fare una vera domanda.
Risponde inoltre saggiamente anche perché nasconde la profondità della risposta in una battuta paradossale e leggera, che assomiglia ad una pacca sulla spalla, che vorrebbe donarti un sorriso.
Una risposta che in effetti ti sta consigliando di morire, di non lamentarti della morte e che non funziona quello sforzo, forse si tratta di lasciare stare quello sforzo egoico e di usare invece la forza della base.
Ti sta dicendo di morire a quella identificazione, nella professione e nella vita, ti sta dicendo, come disse il maestro, che “chi perde la sua vita la salverà”, ma non è un consiglio per il suicidio fisico, piuttosto di lasciare perdere quella identificazione..
E forse questo tipo di medicina, che l’anziano sta consigliando al giovane, è anche la medicina che consiglia per il paziente, ed è quella che a suo tempo, da un bel po’ ha preso anche lui …
Ecco come ha trovato quella pace e quel ristoro.
Morendo al “me”, ed aprendosi al Se’, c’è ristoro.
Come consiglia Gesù:
“Venite a me, voi che siete affaticati ed oppressi, ed io vi ristorerò”.
Nulla di cinico, quindi, ma nulla di personale nemmeno.
B.Come si esce dalla sofferenza
Rifacciamoci a un esempio classico, la Divina Commedia.
L’uscita dalla “etterna prigione”, dalla “valle inferna”, dal luogo ove stanno quelli “ch’hanno perduto il ben dell’intelletto”, avviene quando i pellegrini superano il fondo dell’inferno e si ritrovano sulla piaggia purgatoriale, dove risorge la speranza. Ebbene li accade l’incontro con Catone, guardiano della soglia della salvezza, lui pagano, lui suicida per difendere la libertà dalla dittatura di Cesare che aveva vinto.
Egli interroga i pellegrini sulle credenziali per potere passare, e verifica se siano morti a loro stessi.
La prima domanda che egli pone è la domanda fondamentale:
“Chi siete voi? (che contro il cieco fiume/ fuggito avete la prigione etterna…)”.
Questa realizzazione di chi noi siamo veramente, della nostra vera natura, il “mi ritrovai”, è il lasciapassare, il viatico per procedere.
La rinuncia a Satana, all’ego, è il fattore fondamentale, il non essere più cattivi, ossia “captivi”, prigionieri, catturati dal complesso attrattivo costituente l’identificazione.
Chiarito che siamo liberi, grazie all’ardente desiderio di libertà di Dante, più forte della vita, (“libertà va cercando che è si cara /come sa chi per lei vita rifiuta”), ed alla Grazia Divina, in finale di dialogo Catone affronta una domanda di appendice di Virgilio.
Il poeta infatti dopo avere detto che il viaggio è voluto dal Cielo e che lui è inviato da Donna del Ciel, (Maria, Lucia, Beatrice), chiede il passaggio anche per l’amore che Catone porta ancora a Marzia, poiché anche Marzia prega per il loro viaggio e passaggio.
Catone risponde però osservando come chi sta nel limbo, dove si trovano Virgilio e Marzia stessa, è ancora nella condizione di non salvo da se stessi, di un qualcuno che ancora in fondo non si è liberato dall’ego, sebbene non peccatore.
Così, sebbene in vita egli avrebbe fatto qualsiasi cosa Marzia avesse chiesto, nella presente condizione in cui lui è stato tratto fuori da quel regno, in cui è di là dal mal fiume, dal fiume Acheronte, per Grazia Divina, ella non può più muoverlo, smuoverlo, attrarlo, piegarlo verso di sé.
Nemmeno per amore, quindi, nemmeno per il sentimento più elevato che una persona possa provare, si passa qui.
Non per quell’amore, l’amore personale, qui ci si muove; bensì solo per l’amore con la A maiuscola, quello senza interesse personale, quello incondizionato.
Non condizionato dalla identificazione al me.
Quell’amore superiore consente il passaggio senza bisogno di preghiere personali, e questo amore universale, non egoistico, è il lasciapassare, la credenziale, per procedere nel regno del purgatorio e quindi subito dopo del paradiso, perché qui non c’è più identificazione colla persona.
Ora non siamo più mossi dal me, siamo mossi dal Sé. La prima frase di Virgilio corrispondentemente è: da me non venni, non sono io che muovo i passi per mia volontà verso di te, essi sono mossi.
Così’ finisce il dialogo, che era iniziato proprio con la medesima precisazione.
Possiamo osservare che la domanda che fa Catone è la stessa cui si riferisce lo psichiatra anziano nella barzelletta riportata più sopra. La prima frase di Catone infatti era stata: chi siete voi? Che agisce quindi? Ed è la stessa domanda cui si indirizza l’anziano psichiatra.
C. Ritrovarsi
L’anziano psichiatra e Catone invitano entrambi ad ascoltare qualcosa che è prima, che è dietro la mente, di spostare la propria attenzione verso l’ascolto di ciò che ascolta, di osservare ciò che sta osservando.
Durante una seduta solitamente insisto molto su questo aspetto terapeutico fondamentale, ossia sul riconoscimento di ciò che è sempre presente e costante al di sotto degli alti e bassi che travagliano i miei pazienti, di ciò che sta prima, dopo, sotto le parole, le emozioni, le memorie ed anticipazioni.
Li invito ad ascoltare lo sfondo, di portare l’attenzione indietro per così dire, e rimanerci mentre la danza della mente prosegue da sola.
Certamente in questo i pazienti non sono tutti eguali, non hanno la stessa capacità di distacco ed auto osservazione.
Soltanto coloro che sono già pronti ad un distacco maggiore, a percepire se stessi come ciò che percepisce, a percepire il soggetto e non il mondo degli oggetti e delle relazioni, il mondo delle persone, potranno comprende in sostanza questo invito.
Come dice un altro proverbio, chiarissimo se ascoltato come la barzelletta di prima ad un secondo livello di significato:
“Chi cerca trova”
Il proverbio ha un verbo, cerca; si tratta solo di tre parole, cosa devi cercarlo te lo dice chiaramente, cerca colui che cerca, chi cerca, non cercare un oggetto percepibile, un qualcosa oggettivo.
Cerca il cercatore, ascolta ciò che ascolta, guarda verso ciò che sta guardando, cosa vedi? Nessun oggetto ed un soggetto presente, chiaramente presente, ma invisibile.
Questo trovi, quando chiudi gli occhi, prima che la mente riprenda ad immaginare, e tu sia di nuovo distratto verso un oggetto sottile mentale e riparti per la tangente.
13. Abbiamo occhi e non vediamo
A. Chiudi gli occhi e vedrai
Soffermiamoci un attimo sul gioco infantile che ricordavamo adesso. Non so se ricordate come da bambini a volte facevamo quel bel gioco, quello di chiudere gli occhi per un momento, magari aiutandoci anche colle mani davanti agli occhi stessi.
Come per lo struzzo, mettere la testa sotto la sabbia risolveva ogni problema del mondo che ci stava davanti; magari uno spavento improvviso, una emozione troppo forte ci faceva fuggire da li, verso il nostro paese di origine, il nulla.
Ridevamo di questo modo di esorcizzare una paura, fuggivamo o tornavamo a pieno diritto a casa, dentro quello spazio che subito si mostra e percepisce, quando il mondo viene chiuso, chiudendo gli occhi, quando tutto scompare, come quando andando dolcemente a dormire scompari anche tu.
Quello che trovavamo allora, e che troviamo anche ora appena ascoltiamo assai, è uno schermo buio, non si vede più niente, improvvisamente: buio e basta.
Scompare tutto, troviamo solo il nulla.
Il nulla e noi stessi.
Quello che troviamo è che non c’è più niente, deserto diciamo, ma che noi ci siamo sempre. Ci siamo come presenza, non come persona.
Troviamo che siamo questa consapevolezza, che ci siamo sempre stati, che ci saremo sempre, ad ogni verifica ritroviamo noi stessi, c’è il “mi ritrovai” dantesco, semplice, gratuito, immediato, facilissimo! Disincarnati all’istante, per un attimo…
Quel gioco era facile quando eravamo meno costruiti, meno catturati dall’ipnosi della mente, quando non credevamo ancora a niente e percepivamo tutto ed anche il mistero. Ora da grandi, vedi in fondo come siamo piccoli, non ci ricordiamo nemmeno come ci chiamiamo davvero, il nostro vero nome: IO.
Nell’esercizio consigliato dal proverbio, ascolta assai, può quindi accadere che dall’ascolto dell’energia senza nome, senza forma, senza storia, dalla sacra energia che ci abita, possiamo ricordarci, ripercepire, spostare la attenzione dall’oggetto al soggetto, da questa ricerca di un oggetto da percepire ci si renda conto di ciò che percepisce, sempre presente, fondamento di ogni percezione e presente anche in assenza di percezione.
Ricorderete anche il gioco di mosca cieca! Anche lì la mancanza di visione, per la quale non si sa se ci sia qualcuno o meno, è il fulcro del gioco: stai cercando di identificare qualcuno, devi trovare un corpo e riconoscere una identità, ma si tratta di te! Se ci riesci infatti ti togli la benda, e sotto al prossimo, finché tutti ci reidentifichiamo, o siamo identificati da fuori, dall’altro.
E’ questo il processo che accade da piccoli, la madre, la famiglia, la scuola gli amici, tutto ci porta ad essere un qualcuno, un vero ometto o donnina, cosi’ la coscienza inizia il condizionamento, essere un corpo, un personaggio specifico, e poi avere un ruolo, un identikit.
In questo gioco sperimentiamo il processo di incarnazione, diventiamo di nuovo qualcosa di definito, un’ identità, un nome, un corpo, una forma.
Anche nel gioco di nascondino, si perde la vista e la capacità di identificare, stando nel luogo centrale, l’albero della conta a rovescio, dove il tempo si inverte, dove non vedi più nessuno; e il divertimento consiste nel ritrovare da dettagli corpi e nomi, e questo libera dal gioco, anche se questo processo è ostacolato ed impedito dalla capacità di chi potrebbe essere visto di andare lui all’albero centrale, e liberare tutti dall’essere trovati e fatti uscire dal gioco, tana libera tutti!
B. Chiudi gli occhi e diventi invisibile[8]
Riportiamo uno studio di Russelle Bullard, volto ad indagare cosa accada nella psiche del bambino quando chiude gli occhi. Questi autori avevano osservato che Il bambino pensa di diventare invisibile agli occhi dell’altro quando chiude gli occhi. Russell ha replicato uno studio di Flavell (1980) chiedendo ad un gruppo di bimbi tra i 3 e i 4 anni se, indossando una maschera che tappava i loro occhi, essi fossero visibili alla persona davanti a loro. In una seconda condizione, è stato chiesto ai bimbi se il ricercatore, indossando una maschera simile con occhi tappati, fosse visibile agli occhi di un altro adulto, testando quindi se la credenza fosse attribuita solo a se stessi o anche agli altri (prima e terza persona).
Tutti i bambini asserivano che indossando occhiali opachi non erano visibili all’altro e credevano che lo stesso accadesse all’adulto che indossasse gli occhiali che nascondevano gli occhi. Al contrario, sostenevano che sia la loro testa che quella del collaboratore rimanesse visibile. Nonostante la consapevolezza del corpo visibile, bastano gli occhi chiusi per pensare di essere invisibili!
I bimbi che chiudono gli occhi credono di non essere visibili all’altro, nonostante siano consapevoli che la loro testa e il loro corpo rimangano esposti e visibili. Insomma, è come se, nel chiudere gli occhi, il loro sé fosse nascosto mentre tutto il resto rimane visibile agli altri.
In altri studi, la maggior parte dei bambini si sentiva invisibile fin quando non entrava in contatto con lo sguardo del collaboratore. La questione è affascinante perché molto spesso noi identifichiamo una persona con il suo corpo. Questa linea di ricerca empirica dimostra che non è così. Forse perché nel concepire la presenza o meno di qualcuno non stiamo parlando del corpo fisico, ma di un’entità mentale.
Anche in clinica gli occhi sono importanti nel racconto dei disagi emotivi dei pazienti. Essere osservati può scatenare diverse reazioni, improvvise accelerazioni somatiche, significativi tentativi di fuga o di attacco, la percezione improvvisa di perdere qualcuno di importante.
Essere all’altezza, essere riconosciuti, essere visti, oppure essere trascurati, non essere visti, non essere degni di un’occhiata: sono scene che fanno parte di tante storie personali, che chiedono di poter chiudere gli occhi senza paura di rimanere soli.
C. A ben guardare: le reazioni
Di fronte ad un evento esterno o interno, possiamo reagire accogliendolo ed attraversandolo, oppure reagendo ad esso, difendendoci e chiudendoci.
Questo è un atteggiamento che possiamo chiamare ego sintonico o ego distonico.
- Quando rifiutiamo quello che ci accade ci mettiamo di traverso, ci opponiamo alla perdita di identità, al processo di rinascita, sviluppiamo sintomi di resistenza, di fuga o controllo, manifestiamo un disagio egoico che appare in primo piano. Non è più un gioco, è seriamente una tragedia, vorremmo non essere li.
Nella crisi di identità l’atteggiamento ego distonico costituisce buona parte della esperienza infernale di sofferenza, la parte più oscura della psichiatria.
Non siamo così contenti di questo bel gioco, perché sentiamo che abbiamo qualcosa da perdere, qualcosa da difendere: la nostra identità, quello che crediamo di essere.
E’ quando accade che casca il mondo, e casca la terra, e non c’è più niente, ti potresti molto spaventare, poiché nella testa ancora parla la vecchia identità che sente questo dissolversi e crollare.
Mi vengono in mente sogni di pazienti in cui la gente è senza volto, o il soggetto stesso lo è, ad indicare questo non riconoscere più i connotati, l’identità dell’altro o di se stessi. Ebbene, il risveglio da un simile sogno accompagnato da angoscia è connesso appunto a questo sparire dalla carta di identità. Un processo analogo, in forma meno marcata, è quello in cui il sognatore perde una persona cara, e si sente perso egli stesso, o non ritrova i documenti, la borsa, non ricorda dove abbia parcheggiato la macchina, etc.
- In altri casi possiamo osservare una atteggiamento ambivalente, di accettazione e di resistenza insieme, potremmo far fronte alla situazione razionalizzando e psicologizzando. Molte psicoterapie prendono questo punto di partenza, cercando di rinforzare l’ego del paziente in crisi per aiutarlo a riconfermare il suo equilibrio.
In questo da una parte fanno bene e vengono incontro al desiderio del paziente di non sentire quel senso di perdita o morte, ma non lo aiutano ad attraversare tale condizione.
Nel paziente è come se ci fosse un conflitto inconscio al riguardo:
Sparire o non sparire, essere o non essere, questo è il dilemma.
Una terapia transpersonale dovrebbe tenere conto della paura dell’ego ma anche dell’emergere, in uno spazio di coscienza più ampio e impersonale che già siamo, della coscienza del Sé.
Allora oltre alle condizioni ego distoniche che abbiamo accennato la persona dovrà essere aiutata a riconoscere gli stati di espansione, di estasi a volte, di pace che accompagnano questo riconoscimento e fanno da sfondo, da base su cui portare la propria attenzione durante la trasformazione.
- In altri casi infine sembra che l’esperienza si possa accogliere, sentiamo con chiarezza che qualcosa in noi dice che tutto questo processo accade per un bene maggiore, che in fondo finirà bene. Sappiamo da qualche parte dentro di noi che non si tratta di tragedia, ma di qualcosa di incomprensibile di cui tuttavia ci possiamo fidare, e nonostante tutta la sofferenza ci fidiamo, ci fidiamo di noi in fondo, della nostra natura più profonda.
In questo caso la condizione è meno ego distonica, e col passare del tempo potrebbe addirittura divenire ego sintonica, venire persino percepita come una fortuna, una grazia, un percorso verso un lieto fine, anche se si deve attraversare il deserto, la morte psicologica.
Si percepisce questo trasformarsi come una divina commedia, a lieto fine. In questi casi si assiste ad un ritrovarsi così mutati che si è grati della trasformazione avvenuta, Deo Concedente.
La coscienza stessa viene intuitivamente, semplicemente e subitamente a volte ritrovata e riconosciuta come fondante e semplice base, come casa, come essenza, come farmaco e fonte di salute. Non occorre molta psicoterapia qui, potrebbe bastare una indicazione, un koan, un :”Aha!! Ho visto! Ho capito”.
Questa è l’ultima salute di cui parla Dante, questa è la fontana centrale, la fons vitae, facilmente percepibile se facciamo un attimo di silenzio e ci apriamo alla sorgente, al mistero che siamo.
Questo processo di ritorno, qualora accada sino in fondo, è la meta più preziosa, ci ricongiunge al presente, a ciò che sorge, a questo.
A questo punto c’è solo quel che c’è. Quel che non c’è non c’è, è fantasia.
14. E dopo? Ritrovarsi
Alla fine della storia vedrai che non c’è qualcuno; scoprirai che chi c’è non è una persona: non c’è nessuno.
Una bimba piccolina si batte sulla testa, come stesse bussando alla testa maliziosetta, e dice:
-“Toc, toc!!Ho bussato. … non c’è nessuno!”
In effetti non c’è qualcuno dentro di noi, quando chiudiamo gli occhi. O meglio, c’è qualcosa che non è una cosa, un soggetto che non è una persona con un corpo, una storia, condizionamenti ed ostacoli; non c’è nessuno di preciso, ma quel che si trova è una pura presenza costante, semplice, molto chiara, presente ovunque, illimitata, invisibile.
Se ci pensiamo bene, questa è la definizione di Dio.
Dialogo con una bimba piccolina:
-”Bella, Chi è che sta guardando attraverso i tuoi begli occhietti?”
-”Dio!”, risponde pronta lei.
-”E tu lo sai come lo chiami? Lo chiami “Io…. “”
Infatti, anche nella preghiera, quando chiudiamo gli occhi, ci ritroviamo uniti al senza forma, al Se’.
Quello che chiamiamo io è Dio in fondo, a ben guardare.
Quando chiudi gli occhi la divisione che c’è nel mondo sparisce, la separazione che sentiamo tra noi e gli altri, svanisce, perché svanisce l’ identificazione con l’ego, siamo noi che spariamo, per questo scompare il senso di separazione.
Allora non ci sentiamo più soli, perché quel senso di solitudine derivava dall’isolamento, dalla contrazione rispetto al campo di coscienza.
Allora la percezione è quella di unità, di un “uno”, un uno che non è altro che sensazione; svaniscono e scompare ogni immagine, quello che davvero sei è percepibile ma invisibile; percepisci l’essenziale, ma non il superfluo. Quando hai gli occhi chiusi invece che pensare a quello che ti sta intorno, non sai dove ti trovi.
Potrebbe anche accadere spontaneamente, e non come un gioco; o forse è la vita che gioca con noi.
In una poesia di una amica, si legge:
In mezzo ad un folla di gente
smetti di esistere.
E resta solo essere cullati dai suoni, o spinti dai vuoti che poi non sono vuoti.
E’ tutto un pullulare di particelle
questo stare qui…..
Ecco, qui finisce la psichiatria: la mente interpretativa svanisce, ed il personaggio con essa; c’è solo percepire il soggetto percipiente, e riconoscere che quello sei.
Senza separazione, senza sofferenza di qualcuno, c’è solo quello che c’è.
E se ci fosse sofferenza non sarebbe la sofferenza di un qualcuno, ma solo una sensazione che non accade a te, ma accade in te.
Accade come fenomeno, come quello che è, senza memoria essenza desiderio, senza tempo e durata, come un’onda nel mare; proprio come la gioia o la serenità, colori di una tavolozza divina, di una Divina Commedia.
NOTE
[1] V. Libro del dr. Lee Sannella, Kundalini, psychosis or transcendence.
[2] Nella Commedia è rappresentato da Beatrice che eleva il pellegrino al sommo dei cieli interiori ( la corona, il fiore dai mille petali, la candida rosa).
[3] Di questo parlano le tradizioni spirituali e religiose in genere, ad esempio nel cristianesimo il fuoco dello Spirito Santo.
[4] Questo spesso nei pazienti e nei medici a formazione materialistica portano ad una serie non piccola di indagini su cosa nel corpo possa essere malato, prima di essere indirizzati allo psichiatra o dallo psicologo.
[5] Secondo Ken Wilber infatti potremmo classificare lo spettro della coscienza in vari stadi, che l’umanità ha trascorso nei secoli e che anche a livello individuale possono manifestarsi in successione, ossia : arcaico, magico, feudale, moderno, post moderno, ed integrale.
[6] I traumi infantili inoltre in parte rientrano nel punto precedente, come quando ad esempio in un trauma infantile il genitore non ha potuto proteggere il bimbo, che si è sentito tradito ed orfano, come in un lutto insomma.
[7] Oggetto di questa variabilità nelle regressioni e negli esiti dei processi attivati dagli SAC sarà un articolo a parte.
[8] Russell, J., Gee, B., & Bullard, C. (2012). Why Do Young Children Hide by Closing Their Eyes? Self-Visibility and the Developing Concept of Self Journal of Cognition and Development, 13 (4), 550-576 DOI: 10.1080/15248372.2011.594826