Perdersi e ritrovarsi: le reazioni

Di fronte ad un evento esterno o interno, possiamo reagire accogliendolo ed attraversandolo, oppure reagendo ad esso, difendendondoci e chiudendoci.
Questo è un atteggiamento che possiamo chiamare ego sintonico o ego distonico.
1. Quando rifiutiamo quello che ci accade ci mettiamo di traverso, ci opponiamo alla perdita di identità, al processo di rinascita, sviluppiamo sintomi di resistenza, di fuga o controllo, manifestiamo un disagio egoico che appare in primo piano. Non è più un gioco, è seriamente una tragedia, vorremmo non essere li.
Nella crisi di identità l’atteggiamento ego distonico costituisce buona parte della esperienza infernale di sofferenza, la parte più oscura della psichiatria.
Non siamo così contenti di questo bel gioco, perché sentiamo che abbiamo qualcosa da perdere, qualcosa da difendere: la nostra identità, quello che crediamo di essere.
E quando accade che casca il mondo, e casca la terra, e non c’è più niente, ti potresti molto spaventare, poiché nella testa ancora parla la vecchia identità che sente questo dissolversi e crollare.
Mi vengono in mente sogni di pazienti in cui la gente è senza volto, o il soggetto stesso lo è, ad indicare questo non riconoscere più i connotati, la identità dell’altro o di se stessi.
Ebbene, il risveglio da un simile sogno accompagnato da angoscia è connesso appunto a questo sparire dalla carta di identità. Un processo analogo, in forma meno marcata, è quello in cui il sognatore perde una persona cara, e si sente perso egli stesso, o non ritrova i documenti, la borsa, non ricorda dove abbia parcheggiato la macchina, etc.
2. In altri casi possiamo osservare una atteggiamento ambivalente, di accettazione e di resistenza insieme, potremmo far fronte alla situazione razionalizzando e psicologizzando.
Molte psicoterapie prendono questo punto di partenza, cercando di rinforzare l’ego del paziente in crisi per aiutarlo a riconfermare il suo equilibrio.
In questo da una parte fanno bene e vengono incontro al desiderio del paziente di non sentire quel senso di perdita o morte, ma non lo aiutano in questo senso ad attraversare tale condizione.
Nel paziente è come se ci fosse un conflitto inconscio al riguardo:
Sparire o non sparire, essere o non essere, questo è il dilemma!
Una terapia transpersonale dovrebbe tenere conto della paura dell’ego ma anche dell’emergere, in uno spazio di coscienza più ampio e impersonale che già siamo, della coscienza del Sé.
Allora oltre alle condizioni ego distoniche che abbiamo accennato la persona dovrà essere aiutata a riconoscere gli stati di espansione, di estasi a volte, di pace che accompagnano questo riconoscimento e fanno da sfondo, da base su cui portare la propria attenzione durante la trasformazione.
3. In altri casi infine sembra che l’esperienza si possa accogliere, sentiamo con chiarezza che qualcosa in noi dice che tutto questo processo accade per un bene maggiore, che in fondo finirà bene. Sappiamo da qualche parte dentro di noi che non si tratta di tragedia, ma di qualcosa di incomprensibile di cui tuttavia ci possiamo fidare, e nonostante tutta la sofferenza ci fidiamo, ci fidiamo di noi e della nostra natura più profonda.
In questo caso la condizione è meno ego distonica, e col passare del tempo potrebbe addirittura divenire ego sintonica, persino percepita come una fortuna, una grazia, un percorso verso un lieto fine, anche se si deve attraversare il deserto e la morte psicologica.
Si percepisce questo trasformarsi come una divina commedia, a lieto fine.
In questi casi si assiste ad un ritrovarsi così mutati che si è grati della trasformazione avvenuta, Deo Concedente.
La coscienza stessa viene intuitivamente, semplicemente e subitamente a volte ritrovata e riconosciuta come fondante e semplice base, come casa, come essenza, come farmaco e fonte di salute.
Non occorre molta psicoterapia qui, potrebbe bastare una indicazione, un koan, un :”Aha!! Ho visto! Ho capito”.
Questa è l’ultima salute di cui parla Dante, questa è la fontana centrale, la fons vitae, facilmente percepibile se facciamo un attimo di silenzio e ci apriamo alla sorgente, al mistero che siamo.
Questo processo di ritorno, qualora accada sino in fondo, è la meta più preziosa, ci ricongiunge al presente, a ciò che sorge, a questo.
A questo punto c’è solo quel che c’è. Quel che non c’è non c’è, è fantasia.
Chiudi gli occhi e vedrai
Alla fine della storia vedrai che non c’è qualcuno; scoprirai che chi c’è non è una persona: non c’è nessuno.
Una bimba piccolina si batte sulla testa, come stesse bussando alla testa maliziosetta, e dice:
-“Toc, toc!!Ho bussato. … non c’è nessuno!”
In effetti non c’è qualcuno dentro di noi, quando chiudiamo gli occhi.
O meglio, c’è qualcosa che non è una cosa, un soggetto che non è una persona con un corpo, una storia, condizionamenti ed ostacoli; non c’è nessuno di preciso, ma quel che si trova è una pura presenza costante, semplice, molto chiara, presente ovunque, illimitata, invisibile.
Se ci pensiamo bene, questa è la definizione di Dio.
Dialogo con una bimba piccolina:
-”Bella, Chi è che sta guardando attraverso i tuoi begli occhietti?”
-”Dio!”, risponde pronta lei.
-”E tu lo sai come lo chiami? Lo chiami Io…. “
Infatti, anche nella preghiera, quando chiudiamo gli occhi, ci ritroviamo uniti al senza forma, al Se’.
Quello che chiamiamo io è Dio in fondo, a ben guardare.
Quando chiudi gli occhi la divisione che c’è nel mondo sparisce, la separazione che sentiamo tra noi e gli altri, svanisce, perché svanisce la identificazione con l’ego, siamo noi che spariamo, per questo scompare il senso di separazione.
Allora non ci sentiamo più soli, perché quel senso di solitudine derivava dall’isolamento, dalla contrazione rispetto al campo di coscienza. Allora la percezione è quella di unità, di un “uno”, un uno che non è altro che sensazione; svaniscono, scompare ogni immagine, quello che davvero sei è percepibile ma invisibile; percepisci l’essenziale, ma non il superfluo. Quando hai gli occhi chiusi invece che pensare a quello che ci sta intorno, non sai dove ti trovi.
Potrebbe anche accadere spontaneamente, e non come un gioco; o forse è la vita che gioca con noi.
In una poesia di una amica, si legge:
In mezzo ad un folla di gente
smetti di esistere.
E resta solo essere cullati dai suoni, o spinti dai vuoti che poi non sono vuoti.
E’ tutto un pullulare di particelle
questo stare qui…..
Ecco, qui finisce la psichiatria: la mente interpretativa svanisce, ed il personaggio con essa; c’è solo percepire il soggetto percipiente, e riconoscere che quello sei.
Senza separazione, senza sofferenza di qualcuno, c’è solo quello che c’è. E se ci fosse sofferenza non sarebbe la sofferenza di un qualcuno, ma solo una sensazione che non accade a te, ma accade in te.
Accade come fenomeno, come quello che è, senza memoria essenza desiderio, senza tempo e durata, come un’onda nel mare; proprio come la gioia o la serenità, colori di una tavolozza divina, di una Divina Commedia.
Soffermiamoci un attimo sul gioco infantile che ricordavamo adesso. Non so se ricordate come da bambini a volte facevamo quel bel gioco, quello di chiudere gli occhi per un momento, magari aiutandoci anche colle mani davanti agli occhi stessi.
Come per lo struzzo, mettere la testa sotto la sabbia risolveva ogni problema del mondo che ci stava davanti; magari uno spavento improvviso, una emozione troppo forte ci faceva fuggire da li, verso il nostro paese di origine, il nulla.
Ridevamo di questo modo di esorcizzare una paura, fuggivamo o tornavamo a pieno diritto a casa, dentro quello spazio che subito si mostra e percepisce, quando il mondo viene chiuso, chiudendo gli occhi, quando tutto scompare, come quando andiamo dolcemente a dormire, e scompari anche tu.
Quello che trovavamo allora, e che troviamo anche ora appena ascoltiamo assai, è uno schermo buio, non si vede più niente, improvvisamente: buio e basta.
Scompare tutto, troviamo solo il nulla.
Il nulla, e noi stessi.
Quello che troviamo è che non c’è più niente, deserto diciamo, ma che noi ci siamo sempre. Ci siamo come presenza, non come persona.
Troviamo che questa consapevolezza siamo, che ci siamo sempre stati, che ci saremo sempre, ad ogni verifica ritroviamo noi stessi, c’è il “mi ritrovai” dantesco, semplice, gratuito, immediato, facilissimo! Disincarnati all’istante, per un attimo….
Quel gioco era facile quando eravamo meno costruiti, meno catturati dalla ipnosi della mente, quando non credevamo ancora a niente e percepivamo tutto ed anche il mistero. Ora da grandi vedi in fondo come siamo piccoli, non ci ricordiamo nemmeno come ci chiamiamo davvero, il nostro vero nome: IO.
Nell’esercizio consigliato dal proverbio, ascolta assai, può quindi accadere che dall’ascolto dell’energia senza nome, senza forma, senza storia, dalla sacra energia che ci abita, possiamo ricordarci, ripercepire, spostare la attenzione dall’oggetto al soggetto, da questa ricerca di un oggetto da percepire ci si renda conto di ciò che percepisce, sempre presente, fondamento di ogni percezione e presente anche in assenza di percezione.
Ricorderete anche il gioco di mosca cieca!
Anche lì la mancanza di visione, per la quale non si sa se ci sia qualcuno o meno, è il fulcro del gioco: stai cercando di identificare qualcuno, devi trovare un corpo e riconoscere una identità, ma si tratta di te! Se ci riesci infatti ti togli la benda, e sotto al prossimo, finché tutti ci re identifichiamo, o siamo identificati da fuori, dall’altro. E’ questo il processo che accade da piccoli, la madre, la famiglia, la scuola gli amici, tutto ci porta ad essere un qualcuno, un vero ometto o donnina, cosi’ la coscienza inizia il condizionamento, essere un corpo, un personaggio specifico, e poi avere un ruolo, un identikit.
In questo gioco sperimentiamo il processo di incarnazione, diventiamo di nuovo qualcosa di definito, una identità, un nome, un corpo, una forma.
Anche nel gioco di nascondino, si perde la vista e la capacità di identificare, stando nel luogo centrale, l’albero della conta a rovescio, dove il tempo si inverte, dove non vedi più nessuno; e il divertimento consiste nel ritrovare da dettagli corpi e nomi, e questo libera dal gioco, anche se questo processo è ostacolato ed impedito dalla capacità di chi potrebbe essere visto di andare lui all’albero centrale, e liberare tutti dall’essere trovati e fatti uscire dal gioco, tana libera tutti!
Chiudi gli occhi e diventi invisibile
Riportiamo uno studio di Russelle Bullard, volti ad indagare cosa accada nella psiche del bambino quando chiude gli occhi. Questi autori avevano osservato che Il bambino pensa di diventare invisibile agli occhi dell’altro quando chiude gli occhi. Russell ha replicato uno studio di Flavell (1980) chiedendo ad un gruppo di bimbi tra i 3 e i 4 anni se, indossando una maschera che tappava i loro occhi, se così facendo essi fossero visibili alla persona davanti a loro. In una seconda condizione, è stato chiesto ai bimbi se il ricercatore, indossando una maschera simile con occhi tappati, fosse visibile agli occhi di un altro adulto, testando quindi se la credenza fosse attribuita solo a se stessi o anche agli altri (prima e terza persona).
Tutti i bambini asserivano che indossando occhiali opachi non erano visibili all’altro e credevano che lo stesso accadesse all’adulto che indossasse gli occhiali, che nascondevano gli occhi. Al contrario, sostenevano che sia la loro testa che quella del collaboratore rimanesse visibile. Nonostante la consapevolezza del corpo visibile, bastano gli occhi chiusi per pensare di essere invisibili!
I bimbi che chiudono gli occhi credono di non essere visibili all’altro, nonostante siano consapevoli che la loro testa e il loro corpo rimangano esposti e visibili. Insomma, è come se, nel chiudere gli occhi, il loro sé fosse nascosto mentre tutto il resto rimane visibile agli altri.
In altri studi, la maggior parte dei bambini si sentiva invisibile fin quando non entrava in contatto con lo sguardo del collaboratore. La questione è affascinante perché molto spesso noi identifichiamo una persona con il suo corpo. Questa linea di ricerca empirica dimostra che non è così. Forse perché nel concepire la presenza o meno di qualcuno non stiamo parlando del corpo fisico, ma di un’entità mentale.
Anche in clinica gli occhi sono importanti nel racconto dei disagi emotivi dei pazienti.
Essere osservati può scatenare diverse reazioni, improvvise accelerazioni somatiche, significativi tentativi di fuga o di attacco, la percezione improvvisa di perdere qualcuno di importante.
Essere all’altezza, essere riconosciuti, essere visti, oppure essere trascurati, non essere visti, non essere degni di un’occhiata: sono scene che fanno parte di tante storie personali, che chiedono di poter chiudere gli occhi senza paura di rimanere soli.